Irène Némirovsky: la forza delle parole di Cinzia Bellandi
Irène Némirovsky è nata a Kiev nel 1903 ed è morta ad Auschwitz nel 1942.
Ah.
Pausa.
I primi suoi scritti sono stati pubblicati in Francia alla fine degli anni venti del novecento, dove la famiglia - ricchi banchieri ebrei ucraini - si era rifugiata per sfuggire alla Rivoluzione d’ottobre. Tutto il resto è stato pubblicato postumo, anzi, più che postumo: è stato pubblicato ora, letteralmente.
Ah.
Pausa. C’è di che riflettere.
Probabilmente sono tanti i libri bellissimi che non sono mai stati pubblicati. Ma perdere, non aver avuto l’occasione di leggere la Némirovsky, sarebbe stato un fatto gravissimo.
Esagero? Voglio esagerare.
Perché questa giovane donna ha saputo trarre dalla sua esperienza di vita, nemmeno tanto lunga, e riportare sulla pagina, ritratti umani memorabili. Ha avuto occhi per la sua famiglia e per il dorato mondo che la circondava e ha guardato tutto ciò, il che significa che non si è limitata a viverci dentro, ma ha scannerizzato, riassunto, metabolizzato e archiviato nella sua testolina un mucchio enorme di dati che poi ha ripescato e riassemblato per dare vita ai suoi personaggi.
Nascono così gli spietati protagonisti de Il Ballo (tutta una famiglia di esseri taglienti come coltelli che vogliono solo mettersi al centro di una attenzione, pubblica o privata), il David Golder (tutta una famiglia di esseri crudeli, ma ben vestiti, pronti a tutto pur di rimanere al centro della attenzione pubblica o privata). Tutti stritolati dai perfetti meccanismi della Némirovsky, che non fa sconti a nessuno, mai, nemmeno a quelli che paiono vittime.
Ho letto che scriveva le sue cose su dei quaderni, usando per i testi veri e propri una facciata, mentre su quella accanto annotava le descrizioni fisiche e morali dei personaggi, corredate di un’infinita quantità di dettagli, in modo tale che ognuno di loro avesse sulla carta una vita intera di cui lei poi usava solo le parti che le servivano per il racconto. Praticamente scriveva circondata da tutti questi esseri che, all’occorrenza, le raccontavano gli eventi della propria esistenza o la soccorrevano con un particolare dimenticato. Quando si passa del tempo – tanto tempo – a creare dal niente delle vite, quelli che ti circondano non sono più personaggi, ma persone.
Questa donna aveva un mare di amici immaginari e ce li ha regalati.
Un dono grandissimo e generoso per chi non sa guardare intorno a sé.
Oltretutto - e il miracolo è ancora più sorprendente – lei non si spreca in fiumi di parole, ma riesce a dire in un linguaggio essenziale tutto ciò che c’è da dire, senza mai lasciare il benché minimo dubbio su quello che voleva dire. Quando si hanno tanti amici che ci tirano per la manica è facile farsi prendere la mano e la penna. A volte si crea un po’ di confusione e il lettore si ritrova a fare la fatica di interpretare, sbrogliare ciò che lo scrittore ha raccontato. Gestire i personaggi con assoluta sobrietà è dei grandi scrittori e la Némirovsky è fra questi.
Esempio eclatante di questa capacità è Suite francese, caso editoriale quando è stato pubblicato in Francia nel 200….
La Némirovsky aveva concepito questo romanzo corale sulla guerra in Francia come una suite musicale in cinque movimenti. Fece in tempo a scriverne due. Attraverso i suoi occhi grandangolari si assiste all’arrivo dei tedeschi a Parigi, alle reazioni della varia umanità appartenente alle varie classi sociali, e allo sfollamento degli stessi verso la provincia, con squarci di vita campagnola e di amori trasversali alle classi sociali e anche – udite! – fra una buona francese e un cattivo tedesco. Racconta episodi terribili di egoismo, morte, dolore, amore (più spesso di quanto si pensi l’aggettivo terribile si addice all’amore) con il suo linguaggio scarno e non si può non crederle. Tutto quello che lei racconta è vero. Indiscutibilmente.
Se Némirovsky avesse potuto finire il suo spartito, forse avremmo potuto volgere lo sguardo a trecentosessanta gradi sulle vicende di questo gruppo eterogeneo, ma esemplare per trovare che alla fine tutto si può leggere in diversi modi e che i buoni e i cattivi tendono a cambiarsi di posto, a confondersi.
Ma Némirovsky è stata internata ed è morta in un campo di concentramento poco prima che la guerra finisse. Chi furono i buoni? Chi furono i cattivi?
Eppure nei due movimenti della sua Suite, si sente già come andrà a finire questa guerra, perché raccontando quello che per l’autrice era presente o al massimo passato prossimo, lei riesce a farci intuire la catastrofe finale, intessendo le varie storie di una specie di orrore sempre in agguato, di quel buio da cui lei stessa sarebbe stata risucchiata. Eppure non c’è paura, mai. C’è solo uno schiacciante senso di necessità, che impronta di sé l’agire di ogni personaggio, così come il crescere degli alberi e il fiorire delle rose.
Némirovsky ha scritto fino all’ultimo giorno prima della deportazione, sforzandosi di mantenere intatta la sua dignità, cercando di passare inosservata fra le maglie della Necessità che muove il mondo, fino a che non è stata raggiunta e travolta. E siccome non fa notizia chi non si agita, né da vivo, né da morto (tale la madre, tali le figlie) a Némirovsky si è addetto per lungo tempo il silenzio elegante di una vecchia valigia.
Ma io sono contenta che quella valigia sia stata aperta e che sia la misura del suo raccontare, la forza delle sue parole nette a testimoniare, oltre al suo enorme talento di scrittrice, la sua limpida visione del mondo, la sua capacità di analisi dei sentimenti umani, la sua intelligenza.
Per saperne di più clicca
>qui<